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Comix, intervista ad Art Spiegelman: «Lo stile non so cosa sia»

di Domenico Rosa

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22 agosto 2009
Art Spiegelman (AP)
FOTO / Le copertine di Spiegelman
I fumetti underground «classici» (di Armando Massarenti)

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Quanto conta nel suo lavoro il mestiere, il know how? Non rischia di essere invadente, diventare abitudine?
Non so se ci sia un problema di abitudine, di mestiere, di automatismi. Ma a essere sincero, è da molto molto tempo che non provo più il piacere degli inizi. Non so quali parole usare per evitare di dire una banalità. Ma alla fine la questione è che quando sei giovane non sai quanto non sai. E per questo ti muovi con grande facilità. Però a pensarci bene disegnare per me non è mai diventato un'abitudine. Ogni volta mi sembra di dover re-imparare tutto. So che alla fine finisco col rifare cose che ho fatto, non invento niente di nuovo, però mentre lavoro mi sembra tutto molto nuovo. E ho paura, da sempre, che non troverò la strada per finire. La cosa positiva dell'esperienza forse è questa: dentro di me so di poter arrivare alla fine, perché mi è capitato tante volte di essere insicuro ma poi di arrivarci davvero, alla fine di un lavoro. Ma questa consapevolezza convive con la sensazione di incertezza perenne su quello che sto facendo e su come lo sto facendo.

Quanto conta il mercato quando crea una nuova storia?
Sono fortunato, posso permettermi di non pensare al mercato, nel senso di ritorno economico. Se dovessi farlo, a questo punto della mia vita impazzirei. La mia fortuna è che le royalties dei libri che ho scritto mi consentono di non preoccuparmi per l'affitto o per la retta dell'università dei miei figli. Non ho l'ansia di dover per forza riempire un certo numero di pagine di quotidiani o periodici con i miei disegni.

Lei ha illustrato favole per bambini, scritto fumetti politicamente impegnati, illustrato copertine di famosi settimanali. Esistono regole comuni?
L'unica regola è fare ciò che è adatto in quel momento. Mi spiego meglio e uso una metafora architettonica: quando un architetto si mette a lavorare su un progetto, deve sapere, prima di tutto, se l'edificio che costruirà sarà di fronte a un fiume o nel centro di New York. Per me è lo stesso: delineare i confini del progetto è l'unico modo per cominciare a lavorare. L'altra cosa importante è che qualcuno mi dia una scadenza. Conosco artisti sublimi che iniziano a lavorare davvero solo quando il gallerista dice loro quanti quadri esattamente ha bisogno per allestire una mostra ed entro quale data.
Quando ho capito in che spazio mi posso muovere, faccio le mie scelte. Ad esempio ho appena lavorato con Francoise a un libro per bambini, Jack and the Box, pensato per bambini molto piccoli, che hanno un vocabolario molto molto limitato. Io ho avuto lo stesso limite, ho dovuto fare un libro a fumetti usando strumenti spuntati rispetto a quelli che ho quando faccio un libro per adulti. Un altro esempio sono le tavole sull'11 settembre. Lì la particolarità era lo spazio: non avevo mai lavorato su fogli così grandi, più grandi di qualsiasi giornale. E' una cosa che mi ha spinto a pensare in modo diverso e a organizzare la storia in un modo diverso.

Lei lavora spesso sulla sua indignazione. La rabbia è un elemento creativo o è meglio aspettare di raffreddarsi e prendere la distanze da ciò che si racconta?
Rabbia e dolore, certo, sono scintille e motori potentissimi. Personalmente, se mi sento bene non produco niente, come artista. Non sono il tipo che dice "wao, ho appena fatto un'esperienza fantastica, ho appena avuto il migliore degli orgasmi. Ora ne faccio un'opera d'arte". No, devo sempre percepire un qualche tipo di squilibrio, qualcosa che urli per essere in qualche modo rimaneggiato. Sì, può essere anche una vera e propria ossessione, che magari dopo un po' si esaurisce, proprio lavorandoci. Ma poi deve saltar fuori qualcos altro. Ci deve essere una sorta di turbolenza in cui ficcarmi e provare a navigare.

Il suo rapporto con gli art director è sempre così conflittuale come si racconta?
Premetto che mi piace essere l'art director e il direttore di me stesso. E mi piace anche essere l'art director e il direttore di altri artisti. L'ho fatto e so che mi riesce bene. Quando ho davvero a che fare con un direttore, oppongo un'infinita serie di resistenze. Nel senso che voglio aver completa libertà. Con l'art director il discorso è diverso, perché sono intermediari molto deboli. Anche se hanno un'opinione, alla fine quella che conta è quella del direttore. Quindi personalmente cerco sempre di bypassarli.
Gli art director a volte vogliono agire come "alleati" dei disegnatore nella battaglia contro il direttore, per far passare una certa scelta. Ma se battaglia deve essere, preferisco condurla da solo. Quanto a mia moglie Francoise, lei è il mio art director non solo quando lavoro per il New Yorker. Ma forse è l'unica da cui accetto consigli. Anche se ancora oggi, dopo tanti anni, quando avanza un dubbio o mi fa una critica reagisco malissimo. A volte alzo la voce e lascio la stanza sdegnato. Ma in genere dopo una mezz'oretta torno da lei e ammetto che, forse, aveva ragione.

C'è qualcosa che le è rimasto in mente durante l'intervista a suo padre per Maus che non è finita nella versione finale?
  CONTINUA ...»

22 agosto 2009
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